La Meloni ha appena 50 giorni per recuperare i ritardi di Draghi
Menu

QUOTIDIANO INDIPENDENTE - Fondato e diretto da MAURIZIO BELPIETRO

Home/ Primo piano/Cronaca
CronacaPrimo piano Lun 10 ottobre 2022

Pnrr, la Meloni ha appena 50 giorni per recuperare i ritardi di Draghi e Franco

La Meloni avrà appena 50 giorni per recuperare i ritardi di Draghi e Franco. Non solo gli investimenti vanno a rilento. Pnrr, la Meloni ha appena 50 giorni per recuperare i ritardi di Draghi e Franco
Carlo Cambi
di 
Carlo Cambi

 

Torna in mente una massima di Enrico Cuccia: «Il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, quello mortale è… parlare». Sarà per questo che Mario Draghi, passato dalla marsina alla feluca di presidente del Consiglio, ogni tanto dice cose che non corrispondono alla verità e s’inalbera molto come chi è colto in peccato mortale.

I ritardi sul Pnrr

S’è stizzito Supermario, ma la riflessione su un anno e mezzo di governo finirà per attenuare un po’ l’enfatico prefisso, perché Giorgia Meloni gli rimprovera ritardi sul Pnrr che è il nuovo totem della politica italiana e soprattutto del partito dei governisti. Il Pd, a cui però andava benissimo anche Giuseppe Conte finché era il loro presidente del proprio governo, il due di coppia Calenda-Renzi e i resti di +Europa che hanno innalzato Draghi a protettore delle italiche sfortune. Che Giorgia Meloni sia preoccupata per i mesi a venire è più che lecito, che abbia diritto a una due diligence come farebbe qualsiasi manager che si pigli in eredità un’impresa (è un linguaggio che piace molto al milieu draghiano) è nella forza delle cose, che da politica ancora di opposizione rimproveri il governo in uscita ci sta.

Ma Draghi non ci sta. Mentre a Praga cerca di spiegare ai leader europei che può esistere anche un price cap dinamico sul gas – sempre ammesso che il venditore sia d’accordo – calcolato sulla media delle quotazioni in più mercati con una forchetta di oscillazione del 5%, piccato spiega: «Non ci sono ritardi nell’attuazione del Pnrr: se ce ne fossero, la Commissione non verserebbe i soldi». Sicuro? L’Europa giura e spergiura che ha ragione il presidente del Consiglio uscente e aggiunge: «Va tutto bene», approfittando per dare una ripassata di raspa sulla schiena della Meloni. Ma forse aveva ragione Cuccia: per un banchiere, e non c’è dubbio che Mario Draghi sia stato il banchiere, parlare è un peccato mortale. Ma anche scrivere.

I soldi del Pnrr

Perché è proprio il governo che nella Nadef scrive a firma Daniele Franco – ministro dell’Economia, che è come dire Mario Draghi: «L’ammontare di risorse effettivamente spese per i progetti del Pnrr nel corso di quest’anno sarà inferiore alle proiezioni presentate nel Def 2022 per il ritardato avvio di alcuni progetti che riflette, oltre i tempi di adattamento alle innovative procedure del Piano, gli effetti dell’impennata dei costi delle opere pubbliche. Dei 191,5 miliardi assegnati all’Italia circa 21 saranno effettivamente spesi entro la fine di quest’anno rispetto ai 29,4 miliardi previsti dal Def 2022. Restano circa 170 miliardi da spendere nei prossimi 3 anni e mezzo».

Mario Draghi ha fatto di ogni erba un fascio sostenendo che tutti gli impegni resi dal governo sono stati soddisfatti. A parte il fatto che ci sono alcuni adempimenti già scaduti dalla prima tranche, due in particolare a carico del ministero della transizione ecologica, il nodo è che Draghi si appella agli adempimenti di carta, ma non a quelli sostanziali. Bruxelles però non ci bada, ma il Mef sa che dei 41,4 miliardi che avrebbero dovuto spendere ne ha impegnati meno della metà perché il decreto semplificazioni non funziona, perché le gare di appalto sono andate deserte per via dell’aumento dei costi, perché i progetti nuovi non ci sono.

Infatti oltre il 50% delle somme del Pnrr effettivamente spese sono in capo alle Ferrovie e all’edilizia. Ad agosto erano stati spesi solo 11,7 miliardi (il 6% di tutto l’ammontare di finanziamento) e tutti su progetti già esistenti prima del Pnrr. Dei 29,7 miliardi preventivati ne mancano 18 e i ritardi sui nuovi progetti si accumulano di giorno in giorno. Ha un bel da dire Fitch per stare dalla parte di Mario Draghi che: «La crisi energetica e i limiti della politica fiscale che l’Italia ha di fronte rendono i fondi del Nex generation Ue ancora più importanti per migliorare le prospettive di crescita. La Meloni e il suo partito hanno espresso il desiderio di rinegoziare parti del Pnrr senza però dire quali. Pensiamo che sia improbabile che la Commissione europea mostri molta flessibilità sulle riforme strutturali».

Peccato che proprio Draghi avesse scritto nel suo Def che se il Pnrr avesse messo a terra tutti e i 44 miliardi previsti in arrivo dall’Europa sarebbe valso un incremento del Pil dello 0,9%. Siccome ne abbiamo spesi meno della metà viene da dire che Draghi stesso ha abbassato il Pil dello 04%. Di questi tempi non è poco.  E che il Pnrr fosse in ritardo lo avevano già scritto nel Def ad aprile. Si leggeva: «Il Pil nel 2026 salirà grazie alle riforme di 3,2 punti percentuali, invece dei 3,6 stimati. La flessione di 0,4 punti è dovuta a posticipi di spesa e ad una meno rapida dinamica del cronoprogramma di spesa». Al punto che rifacendo i conti il Mef aveva stimato: «Nel 2021 l’impatto del Pnrr sul Pil è +0,2 punti (-0,4 punti rispetto alla stima del 2021), nel 2022 +0,9 punti (-0,3 rispetto al 2021), nel 2023 +1,5 (-0,4 sul 2021), nel 2024 +2,1 (-0,4) e nel 2025 +2,8 (-0,3)».

L’ultima cabina di regia

Ma ora c’è un’altra parte molto interessante da raccontare. Perché il presidente del Consiglio nell’ultima cabina di regia – quella da cui sono rimasti esclusi Forza Italia, perché privata di ministri, e Fratelli d’Italia, in quanto ancora oppositori – ha fatto dire al suo sottosegretario Roberto Garofoli che per la terza tranche – scade al 31 dicembre e vale 19 miliardi – 21 obiettivi su 55 sono già stati raggiunti e altri otto saranno raggiunti entro ottobre. I rimanenti 26 saranno invece conclusi dal prossimo governo, se non ci saranno ritardi nel suo insediamento.

Il fatto è che nessuno ha detto che anche per la seconda tranche non c’è un definitivo via libera, che deve venire dal Comitato economico e finanziario dell’Ue. E i soldi non sono ancor arrivati. Draghi non ha fatto cenno al fatto che mancano ancora 44 decreti attuativi per la prima e la seconda tranche, né che la Meloni, se sarà insediata a palazzo Chigi entro la fine di ottobre, avrà scarsi 50 giorni che si intersecano anche con la legge di bilancio per portare a termine gli adempimenti. Come non ha detto che finora gli impegni erano di carta, dal prossimo anno si valuta cosa si è fatto. Perché il piano funziona un po’ come i mutui: prima si pagano gli interessi sotto forma di decreti, poi il capitale sotto forma di opere fatte.

Supermario non ha poi tutta questa ragione di inalberarsi. Ma del resto il nostro premier ci aveva anche detto che era tutto a posto su Montepaschi, su Ita, sulla rete unica di Tlc, sul Superbonus, sulle Autostrade e su una serie infinita di altre faccenduole. Giusto per memoria Montepaschi, ammesso che l’aumento di capitale si faccia, costa al Tesoro 1,8 miliardi, sull’Ilva c’è da mettercene un altro, sulla rete unica c’è al minimo un conticino da 15 miliardi, Autostrade privatizzate da Draghi sono tornate a casa con un esborso di oltre 7 miliardi. Certo trovare i soldi per fronteggiare il caro energia è un po’ più difficile. Ma ora arriva il price cap dinamico. Magari un po’ in ritardo, come il Pnrr.

Condividi articolo