Il processo Mps in Cassazione: «Violata la legge»
Menu

QUOTIDIANO INDIPENDENTE - Fondato e diretto da MAURIZIO BELPIETRO

ApprofondimentiCronaca Ven 18 novembre 2022

Il processo Mps in Cassazione: «Violata la legge per Mussari e Vigni»

Il processo Mps arriva in Cassazione: violata la legge per assolvere Mussari e Vigni. In appello tutti assolti su Alexandria e Santorini. Il processo Mps in Cassazione: «Violata la legge per Mussari e Vigni»
Gianluca Paolucci
di 
Gianluca Paolucci

Ha lavorato per Reuters e La Stampa occupandosi di finanza, crac bancari, criminalità finanziaria e corruzione. Dal 2022 è caporedattore di Verità & Affari e scrive per La Verità e Panorama.

Il processo Mps

Una sentenza «errata nelle conclusioni, errata nel metodo, emessa in violazione delle norme di legge (…)». La procura generale presso la Corte d’appello di Milano ricorre in Cassazione contro la sentenza di secondo grado che ha assolto gli ex vertici di Mps Giuseppe Mussari e Antonio Vigni oltre a una serie di manager della banca, di Deutsche Bank e di Nomura.

La vicenda è quella delle operazioni Alexandria a Santorini, che nel 2013 fecero tremare la banca senese. Nel maggio scorso, la Corte d’appello aveva assolto tutti i 13 indagati più le banche come responsabili amministrativi dai reati contestati, ribaltando le sentenze di condanna emesse in primo grado con la motivazione che «il fatto non sussiste».

Se il ricorso della procura generale era atteso, a colpire sono le motivazioni. Nell’emettere la sentenza di assoluzione, scrive il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi, la Corte è caduta «in una progressione di argomentazioni fallaci, aporie logiche, di contrasti con la realtà probatoria, di contraddizioni inemendabili, con prescelta di alcuni elementi di prova a discapito di altri». Tra le altre cose, la sentenza di assoluzione ha sostenuto che l’operazione Santorini, nello specifico, non potesse essere classificata come un derivato.

Oltre all’impossibilità di poter affermare che l’operazione fosse di per sé illecita, «architettata con l’unico scopo di ottenere un illecito vantaggio contabile». Né Santorini né Alexandria erano, secondo la sentenza di assoluzione, dei Cds (Credit default swap, protezioni sul rischio di default di un emittente, nel caso specifico il debito pubblico italiano).

L’errore più macroscopico, secondo il ricorso, è quello di non aver considerato il principio generale che governa i principi contabili internazionali, ovvero la prevalenza della sostanza sulla forma, sulla base del quale «le transazioni e gli altri eventi che il bilancio rappresenta siano rappresentati e contabilizzati sulla base della loro sostanza e realtà economica e non meramente sulla base della loro forma legale». La violazione di questo principio di legge – recepito nel nostro ordinamento fin dal 2005, in virtù di una direttiva europea – è secondo la Gualdi «la chiave di lettura dell’intero processo».

Da qui deriva la necessità di considerare le operazioni come derivati. Così come è stato riconosciuto dalla stessa Nomura, in una memoria depositata nel 2013 al tribunale di Firenze, da Deutsche Bank alla Bafin (l’autorità tedesca di controllo dei mercati) e in seguito fatta propria dalla Consob.

Del resto, ricorda il ricorso, la mancata iscrizione del valore negativo di prima iscrizione delle operazioni Alexandria e Santorini «è granitica certezza probatoria su cui hanno unitariamente concordato tutte le parti processuali»: la procura, la banca, il consulente delle parti civili, la Consob, la Banca d’Italia e la Bafin.

Tra le contestazioni c’è anche quella che i giudici fanno propria la tecnica del perito delle difese, professor Maspero. Le ragioni per le quali il tribunale dichiara di preferire questa consulenza sono in effetti singolari. Tra queste si può leggere che Maspero nella sua relazione cita «i massimi esperti mondiali in materia di derivati», che i consulenti dei pm hanno presentato delle integrazioni successive, mentre «laddove un pensiero scientifico sia radicato e chiaro non necessita di plurime spiegazioni».
La procura generale conclude quindi che la sentenza di assoluzione «dimentica di valutare le fonti probatorie diverse da quelle prescelte, (…) dimentica i documenti, le deposizioni istruttorie, le relaizoni ispettive. (…) Isolando le proprie convinzioni dalla realtà probatoria».

Condividi articolo