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EconomiaPrimo piano Ven 03 febbraio 2023

Crac Divania, si aggrava la posizione di Profumo: c'è un nuovo capo d'accusa

Cambia il capo di imputazione a carico dell'ex ad di Unicredit per il fallimento del gruppo pugliese. L'accusa è di bancarotta, ma... Crac Divania, si aggrava la posizione di Profumo: c'è un nuovo capo d'accusa ALESSANDRO PROFUMO AMMINISTRATORE DELEGATO LEONARDO
Tobia De Stefano
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Tobia De Stefano

Con una lunga esperienza nel settore economico, ha lavorato a Libero Mercato e Libero. Ora è alla Verità e scrive per Panorama e Verità & Affari

Da Siena a Bari il passo è breve

Non siamo a Siena, ma a Bari. Oggetto della contesa non è la più antica banca d’Italia (Mps), ma una delle più solide realtà del polo dell’arredamento del Sud del Paese, “Divania”, che fino a qualche anno fa dava lavoro a circa 500 persone. Le due vicende sono accomunate per il fatto che sia sul dissesto dell’istituto di credito che sul crac del gruppo pugliese da anni sono in corso serrati accertamenti della magistratura, anche (ma non solo) sulla gestione dei derivati. E che nel mirino degli inquirenti, in Toscana come nel Mezzogiorno, è finito, tra gli altri, lo stesso manager, Alessandro Profumo.

Entrambe le storie sono note, per il Monte Profumo è stato condannato in primo grado a 6 anni di reclusione ed è in atteso dell’appello a marzo,  la novità è che un paio di settimane fa il Tribunale di Bari ha notificato all’ex ad di Unicredit e presidente del Monte e attuale Ceo di Leonardo un nuovo verbale d’udienza con la modifica del capo d’imputazione. L’accusa è sempre di bancarotta fraudolenta, ma l’aggravante riguarda l’aver provocato un danno patrimoniale di rilevante gravità all’azienda. E prevede un aumento fino alla metà della pena.

Le carte giudiziarie

Secondo i documenti consultati da Verità&Affari tutto è partito dalla richiesta del pm Lanfranco Marazia che alla luce delle nuove dichiarazioni rese da Francesco Parisi, l’imprenditore ex proprietario della Divania che ha dato il là alle indagini, ha chiesto di applicare il nuovo capo di imputazione ai sensi dell’articolo 219 del codice penale avendo il via libera del presidente Domenico Mascolo. Da qui la notifica degli atti agli imputati.

La storia non è molto nota alle cronache finanziarie e comunque è di gran lunga meno conosciuta rispetto alla saga senese. Ma non per questo è meno “interessante”. Tant’è che l’origine dei fatti risale addirittura agli inizi degli anni 2000, quando Divania rappresentava una solida realtà del Mezzogiorno con i suoi capannoni che si estendevano per circa 40 mila metri quadrati e un fatturato che viaggiava nell’ordine di circa sessanta di milioni di euro. Divania esportava negli Stati Uniti e da qui le sollecitazioni dei funzionari di Unicredit a sottoscrivere degli strumenti che la coprissero dal rischio del cambio euro-dollaro. A detta di Parisi, per ogni partita di divani esportata negli Usa, Unicredit gli anticipava l’importo della fattura, con inviti continui ad aprire posizioni per “proteggersi”.

«Mi hanno detto che mi conveniva accettare per non compromettere i normali fidi», rivela Parisi. Ma con l’avventura nei derivati l’imprenditore entra in una sorta di circolo vizioso che si aggrava ad ogni nuovo passaggio. Perché i nuovi buchi portano nuove necessità di coperture, per cui alla fine della fiera in cinque anni “Divania” sottoscrive derivati per più di 200 milioni di euro contro un fatturato di circa 65.  Crolla il dollaro, la concorrenza cinese sottocosto diventa spietata e il fatturato cade in picchiata, così Divania da azienda profittevole qual era si trasforma una sorta di groviera. E’ la fine. Per Parisi che porta Unicredit in tribunale è tutta colpa dei derivati. Per la banca no. O lo è solo parzialmente. La richiesta è di un risarcimento per 219 milioni (il valore dei derivati) più 61 di interessi.

L’inchiesta fa pochi passi avanti

Passano gli anni, ma l’inchiesta fa pochi passi in avanti. Si segnala non molti mesi fa il sequestro di immobili, conti correnti e un quinto delle retribuzioni di 14 ex manager di Unicredit, tra questi anche gli ad dell’epoca, Alessandro Profumo e Federico Ghizzoni, per un totale di 40 milioni di euro. Siamo nel 2021 e la banca interviene firmando una fideiussione che consente la revoca del sequestro. Profumo & C salvano lo stipendio, ma l’accusa di bancarotta per l’ex amministratore delegato resta. Accusa che adesso è arricchita dall’aggravante dell’aver provocato un danno patrimoniale di rilevante gravità all’azienda. E un possibile aumento della pena. Fino a poche settimane fa il manager ligure rischiava da 3 a 10 anni, con il nuovo capo d’imputazione da quattro anni e mezzo fino a 15 anni.

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