Le imprese che pagano la cassa integrazione di tasca propria rischiano
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ApprofondimentiEsperti Mer 08 giugno 2022

Le imprese che pagano la cassa integrazione restano col cerino in mano

È quanto succede regolarmente alle aziende che scelgono di pagare direttamente ai propri dipendenti la Cassa Integrazione. Le imprese che pagano la cassa integrazione restano col cerino in mano Imagoeconomica
Redazione Verità&Affari
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Redazione Verità&Affari

La cassa integrazione per i dipendenti

Anticipare fondi per conto dello Stato non è conveniente, perché si rischia facilmente di non potere più incassare i propri crediti. È quanto succede regolarmente alle aziende che scelgono di pagare direttamente ai propri dipendenti la Cassa Integrazione (o un’altra forma di ammortizzatore sociale). Ma senza porle a conguaglio entro sei mesi. È questo, infatti, il termine decadenziale previsto, che crea una palese sperequazione a danno delle imprese che tutelano i propri dipendenti senza lasciarli senza retribuzione.

In sostanza, questi imprenditori – anticipando la prestazione per conto dello Stato – agevolano le casse pubbliche, ma in cambio non ricevono alcun trattamento di favore, bensì l’attribuzione di un rischio aggiuntivo.
Le imprese che, invece, chiedono il pagamento diretto della prestazione all’Inps impegnano flussi finanziari dello Stato senza rischiare nulla. Questa sperequazione nasce con la riforma degli ammortizzatori sociali del 2015, ma esplode con la normativa emergenziale, interessando migliaia e migliaia di imprese.

Infatti, fino all’entrata in vigore dell’art. 7 del decreto legislativo n. 148/2015, che ha previsto il termine di sei mesi per il conguaglio, la decadenza interveniva seguendo il termine decennale ordinario. Una normativa che guardava ad un mondo completamente diverso, in cui la regola era il conguaglio e l’assoluta eccezione il pagamento diretto. Non solo. La platea delle aziende interessate era ridottissima e per lo più di grandi dimensioni.

Con il Covid questo mondo si è rovesciato. La regola è divenuta il pagamento diretto e i volumi delle prestazioni si sono moltiplicati, arrivando a miliardi di ore di cassa integrazione pagate. In questo scenario pensare di mantenere il termine ristretto di 6 mesi, penalizzante per chi ha dato sostegno alla gestione finanziaria dello Stato, è davvero stridente.

Basta una semplice svista e il danno che si può riversare sull’azienda è davvero elevato. Non possono essere queste le regole per garantire la compliance tra il sistema delle imprese e lo Stato. Si dovrebbero sostenere le aziende, che hanno aiutato il Paese, ad affrontare la crisi e non penalizzarle, facendole decadere dal diritto a percepire somme regolarmente autorizzate e anticipate per conto dell’Istituto previdenziale.

Serve una norma immediata che ripristini un principio di civiltà giuridica e crei un rapporto fiduciario tra imprenditori e Stato. Non è certo così che si incentiva a fare impresa. Non è certo così che si invogliano gli investimenti in economia reale, da cui poi nascono i tanti invocati nuovi posti di lavoro. Gli incrementi occupazionali si ottengono sostenendo il sistema imprenditoriale e invogliando ad avere fiducia nel futuro e nelle Istituzioni. Cambiare questa norma, riaprendo i termini per la mancata compensazione, sarebbe certamente un modo per andare nella giusta direzione.

*presidente Fondazione
Studi Consulenti del lavoro

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