Strocchi: "Il risparmio italiano vada alle nostre imprese" - V&A
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ApprofondimentiImprese Sab 18 marzo 2023

Electa Ventures: "Il risparmio italiano alle nostre imprese"

Il fondatore di Electa Ventures ha quotato in Borsa molte aziende. "Ci sono tante opportunità, ma servono fondi specializzati" Electa Ventures: "Il risparmio italiano alle nostre imprese"
Mikol Belluzzi
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Mikol Belluzzi

Al via nuovo fondo di Electa con Azimut

Più risparmio italiano sulle imprese italiane. Semplificazione delle procedure per il debutto in Borsa delle Pmi tricolori e strumenti innovativi per coinvolgere i fondi di private equity nel finanziare la crescita delle nostre società. Sono alcune delle proposte di Simone Strocchi, presidente e managing partner di Electa Ventures, che sta mettendo a punto il secondo veicolo della serie IPO Club. Strocchi è stato il primo a lanciare in Italia il modello della Spac per quotare aziende a Piazza Affari e poi a innovarlo con Ipo Club. E adesso è pronto al bis di questo fondo chiuso sempre con al suo fianco il big del risparmio gestito Azimut, perché “l’ecosistema italiano offre tantissime opportunità d’investimento”.

Anche il ministro dell’Economia Giorgetti se n’è accorto e vuole semplificare la quotazione in Borsa delle Pmi. Cosa ne pensa?

Il governo dovrà dare seguito al Listing Act e quindi auspichiamo si determinino le condizioni perché l’Italia vari norme e regole per dare concretezza alla semplificazione delle procedure di quotazione in Borsa, sia attraverso un alleggerimento dei documenti da presentare, sia con una riduzione dei tempi. Il tempo è un fattore importante e per questo ci sono società che hanno preferito quotare i loro strumenti finanziari in Irlanda o in Olanda, dove i tempi di autorizzazione sono molto più veloci. Io voglio guardare in Italia, ma ammetto che per lanciare un prestito obbligazionario recentemente ci siamo rivolti all’Irlanda, dove in tre settimane abbiamo avuto il via libera. Ribadisco, i tempi sono importanti.

Soprattutto l’Olanda sta diventando attrattiva per le nostre società di grandi dimensioni. L’ultima a emigrare è stata Exor.

L’Olanda è diventata attraente anche in virtù della legislazione che garantisce il voto plurimo. Io sono “tiepido” su questo tema, però, se dobbiamo subire l’attacco dell’Olanda in questo campo, allora meglio rendere perseguibili anche in Italia gli stessi obiettivi.

Con Electa siete stati i primi a lanciare una Spac in Italia, ma poi avete innovato il modello. Perché?
Noi siamo stati i precursori delle Spac. Con Made in Italy 1 abbiamo avuto un grande successo quotando Sesa, un solido gruppo IT che quando è entrato in Borsa aveva un market cap di 135 milioni di euro mentre ora, grazie anche a una serie di acquisizioni, vale oltre 2 miliardi sul listino principale. Tra il 2017 e il 2018 in molti hanno seguito il nostro esempio e c’è stata una gara per costituire Spac, ma, dopo aver raccolto i capitali, molti manager non avevano operazioni già identificate e quindi il veicolo, superati 18/20 mesi, non riusciva a chiudere l’agognata operazione prestando il fianco a piccole speculazioni. Pensi che le azioni delle Spac vintage spesso finivano nei portafogli di fondi obbligazionari interessati all’agio tra prezzo di acquisto e rimborso garantito. Insomma, era finita l’euforia e il modello aveva bisogno di accorgimenti.

Per questo avete deciso di cambiare modello?
Ci siamo resi conto che le Spac avevano dei punti deboli e abbiamo lanciato un’evoluzione che abbiamo chiamato Ipo Challenger. Si tratta di prebooking companies costituite da imprenditori finanziari (noi) che raccolgono capitali emettendo obbligazioni a brevissima durata. L’obiettivo è rappresentare agli obbligazionisti una alternativa discrezionale di rimborso con azioni e warrant della società target. Gli obbligazionisti che aderiscono alla proposizione di rimborso in natura determinano così il primo flottante di avvio a negoziazione della società target in un contesto più veloce e dinamico rispetto la laboriosa “business combination” che nelle Spac tradizionali si perfeziona a valle di un processo di fusione con la target con diverse complessità esecutive.

E com’è andata?
Con Ipo Challenger abbiamo formato e portato al listino Italian Wine Brands, divenuto il primo gruppo vinicolo privato italiano che, grazie anche a una serie di acquisizioni, oggi produce 180 milioni di bottiglie l’anno a marchi proprietari con oltre 430 milioni di fatturato. Ma anche Pharmanutra, che ora capitalizza 600 milioni di euro sullo STAR, e Digital Value, il gruppo ICT che da 8 semestri cresce a tassi del 20% e ha avviato le pratiche per il translistig dal listino Egm a quello principale. Un passaggio che ci rende orgogliosi, perché l’obiettivo alla base di tutte le nostre operazioni è essere finanza costruttiva, al fianco delle imprese con cui cresciamo insieme.

Per Ipo Challenger vi siete alleati con il big del risparmio gestito Azimut. 
Con Azimut nel 2017 abbiamo creato il fondo Ipo Club che ci consente di avere copertura finanziaria per coltivare una pipeline di aziende da quotare attraverso la formazione di prebook che riusciamo a costruire anche “in cloud”. Il nostro ruolo è quello di primi investitori. Affianchiamo le aziende nel processo di quotazione che finanziamo con i nostri capitali e che realizziamo attraverso la formazione dei nostri prebook in cui il fondo IPO Club interviene da cornerstone, garantendo tra il 20 e il 30% della raccolta, completata dagli stessi investitori del fondo – che aderiscono discrezionalmente e direttamente all’operazione- e da un selezionato numero di istituzionali che ormai formano un vero e proprio ecosistema molto qualificato. Con questa formazione abbiamo sostenuto operazioni di successo cui abbiamo recentemente aggiunto Magis, ultimo debutto a Piazza Affari del 2022, che ha già dato spunti positivi con una percentuale di crescita del valore azionario per gli investitori iniziali a doppia cifra.

Ma come vi comportate con gli imprenditori?
Da imprenditore finanziario a imprenditore industriale. Facciamo una negoziazione privata e da quel momento in poi l’imprenditore non ha più l’alea di quotarsi o no. E’ come creare un consorzio di soggetti interessati a investire, un pool di investitori che conoscono già l’impresa e sono disposti ad accompagnarla nel processo di quotazione formandone e qualificandone il flottante.

Com’è andato Ipo Club 1?
E’ andato bene e gli investitori che ci hanno seguito con formula piena, investendo sia nel fondo che nei singoli prebook , hanno triplicato il loro investimento. Chi, invece, ha investito solo nel fondo è attualmente seduto su circa 1,7 volte il capitale investito lordo che, visto l’andamento dei mercati nell’ultimo triennio, mi pare un ottimo risultato. Ora stiamo per partire con Ipo Club 2 e mi sono stupito che nessuno abbia copiato il nostro modello.

Eppure in Italia sono pochi gli investitori che puntano sulle matricole o sbaglio?
Nel nostro Paese abbiamo una grande concentrazione di fondi aperti che però, per ragioni di compliance, sono alla ricerca soltanto di azioni di aziende che garantiscono alta liquidità, mentre le matricole per definizione non sono liquide. Per questo abbiamo bisogno di fondi chiusi che investano in pre ipo e nei primi anni dal debutto di queste realtà sui mercati. Abbiamo anche tanti fondi di private equity, a cui però non interessano società quotate e considerano la borsa limitatamente e con scarso entusiasmo solo in fase di exit. I nostri fondi di private equity non colgono queste opportunità d’investimento in Borsa. Forse bisognerebbe essere più creativi e realizzare delle strutture societarie innovative per coinvolgerli maggiormente, formule di Private Investment in Public Equity (Pipe). Anche per contrastare l’azione predatoria di grandi fondi internazionali che in Italia guardano al listino essenzialmente per finanziare delisting (Opa). Ribadisco, c’è bisogno di fondi chiusi e di Eltif che colgano le opportunità del mercato, affiancando progetti imprenditoriali vincenti con un’ottica value, essenziali per mantenere l’italianità delle nostre migliori imprese.

Però, molte delle società che si quotano sono davvero delle micro aziende.
Noi abbiamo sempre accompagnato al listino società non piccolissime, già forti, che potessero crescere e fare acquisizioni. E tante di queste aziende acquisite avrebbero anche avuto i numeri per accedere stand-alone sul mercato. Però credo sia importante creare dei campioni nazionali e internazionali, e fare aggregazioni in Borsa è più facile. Per esempio, è quello che abbiamo fatto con IWB, che ha pagato le sue acquisizioni sia con cassa che con carta, rendendo tanti imprenditori partecipi di un unico grande progetto.

Quali sono i settori che vi interessano?
In Italia ce ne sono diversi. Per citarne due tra i tanti: la meccatronica, dove c’è spazio per fare delle aggregazioni, o il comparto dei semilavorati e degli ingredienti alimentari, anch’esso molto interessante.

Cosa pensa del crollo dei mercato italiano a causa del fallimento di Svb?
Sono rimasto basito di come è stata repentina la risposta del mercato tricolore. Un panico che asseconda l’interesse di qualche speculatore di far “dondolare” il mercato per guadagnarci. La nostra Borsa, a differenza di quella americana, ha un sottostante di economia reale italiana e per questo è sostanzialmente sana. Negli Stati Uniti, invece, la capitalizzazione di borsa insiste su economia reale americana per meno di 1/3, un dato di fatto che conferisce al mercato a stelle e strisce un primato di grandezza, ma che manifesta un’elevata frequentazione di speculatori di tutto il mondo. Noi, al contrario, siamo espressione di finanza un po’ provinciale, ma sicuramente costruttiva, e abbiamo grande attenzione a selezionare società sane e per questo dobbiamo essere orgogliosi del nostro contributo allo sviluppo del tessuto produttivo.

Quindi è d’accordo con il governo che vuole che il risparmio degli italiani resti in Italia?
Certo, perché penso che il risparmio italiano possa davvero essere investito sulle nostre imprese e ci sono tante opportunità per farlo con ottime prospettive di performance.

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