Con la fine di Draghi i partiti iniziano subito la campagna elettorale
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In evidenzaPolitica Gio 21 luglio 2022

Fine della corsa per il governo Draghi, per i partiti inizia subito la campagna elettorale

Alla fine la crisi di governo non l’ha voluta nessuno. Il governo di Mario Draghi non c’è più, inizia la campagna elettorale. Fine della corsa per il governo Draghi, per i partiti inizia subito la campagna elettorale
Riccardo Pelliccetti
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Riccardo Pelliccetti

Riccardo Pelliccetti, triestino, è stato caporedattore e inviato speciale per 20 anni de Il Giornale, dopo aver lavorato per diversi quotidiani, periodici e riviste web, occupandosi di politica estera e difesa. Ma è tornato alla sua passione: l’economia. Ha pubblicato i libri “La via dell’esodo” (1997), “I nostri marò” (2013) e “Le verità negate” (2020).

La fine del governo Draghi

Alla fine la crisi di governo non l’ha voluta nessuno, ma molti si sono dati da fare perché si realizzasse. E crisi è stata. Il governo di Mario Draghi non c’è più, è caduto sotto i colpi dei partiti che da tempo sottolineavano con forza la loro distanza dall’azione del governo. E il presidente del Consiglio nelle sue comunicazioni al Senato lo ha rammentato, togliendosi diversi sassolini dalle scarpe, puntando il dito sui 5 Stelle, certo, ma anche e soprattutto sulla Lega di Matteo Salvini. «Negli ultimi mesi si è registrato un crescente desiderio di distinguo, di divisione, c’è stato un progressivo sfarinamento», ha detto, ma ha fatto capire di essere pronto a ricucire gli strappi. Il premier ha elencato i risultati ottenuti dal governo in questi 17 mesi, dal contenimento della pandemia alle misure per uscire dalla recessione post Covid fino alla stesura e approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), lodando i partiti di maggioranza («è merito vostro»).

La posizione della lega

Ma dopo i riconoscimenti ci sono state anche le bordate, ricordando i momenti indigesti, come i distinguo sull’invio delle armi all’Ucraina, la stesura sbagliata delle norme sul Supebonus, i balneari e la rivolta dei tassisti: «C’è bisogno di un sostegno convinto e non a proteste non autorizzate talvolta violente sulla maggioranza di governo». Concetti ribaditi anche nella sua replica agli interventi dei gruppi parlamentari del Senato, reagendo inoltre con indignazione alle accuse venute dai banchi del partito di Giorgia Meloni di pretendere «pieni poteri» e di essere un autocrate.

Alla fine Draghi ha chiesto la fiducia sulla risoluzione presentata da Pierferdinando Casini, che aveva una sola riga: «Udite le comunicazioni del premier si approva». Senza prendere in considerazione quella presentata dal leghista Roberto Calderoli a nome del centrodestra di governo. E se nella Lega e in parte di Forza Italia aleggiava il pensiero del voto anticipato con la “requisitoria” del premier, che aveva preso di petto il Carroccio, dopo la replica di Draghi e la sua decisione di chiedere la fiducia sulla risoluzione di Casini, tra i due partiti del centrodestra il pensiero è diventato azione. Riunioni, telefonate, Salvini che riunisce i suoi, Silvio Berlusconi che concorda la linea con Salvini e, infine, la decisione: non partecipare al voto di fiducia. A molti è sembrata inspiegabile la condotta di Draghi.

Il premier e il Pd

Già si era macchiato di una scortesia politica il giorno precedente, consultandosi con il leader del Pd Enrico Letta a Palazzo Chigi senza minimamente sentire la necessità di confrontarsi con Lega e Forza Italia che sono parte della stessa maggioranza che lo sostiene. E ieri al Senato agli occhi del centrodestra di governo si è comportato allo stesso modo con la risoluzione Casini, irritando Salvini e Berlusconi che non hanno nascosto il disappunto sul fatto che il senatore centrista sia stato eletto nelle liste del Pd. Insomma, l’ormai ex presidente del Consiglio sembra avere un occhio di riguardo solo per il Partito democratico.

Quindi addio al «nuovo patto di fiducia» invocato dal premier in mattinata per proseguire l’azione di governo. Lega e Forza Italia se prima erano disponibili a determinate condizioni (fuori i 5 Stelle e «profondo rinnovamento» della compagine ministeriale, è scritto nella risoluzione Calderoli), con il nuovo scenario hanno deciso di staccare la spina non partecipando al voto di fiducia. E i 5 Stelle hanno fatto la medesima cosa, anche se il loro passo indietro è diventato quasi irrilevante con l’evolversi della situazione. Ora la palla è passata al Quirinale, che dovrà valutare se ci sono le condizioni per formare una nuova ma improbabile maggioranza oppure sciogliere le Camere. Già si parla di 2 ottobre come data per andare alle urne. Il presidente Sergio Mattarella era comunque sceso in campo consultando telefonicamente i leader dei partiti di maggioranza e cercando di convincere il centrodestra a non far cadere Draghi. Inutilmente. Il premier oggi salirà al Colle per confermare le dimissioni, ormai irrevocabili, che aveva già presentato il 14 luglio, dopo l’uscita dall’Aula dei grillini per non votare la fiducia sul Decreto Aiuti.

Gelmini lascia Fi

La scelta di Lega e Forza Italia di non votare la fiducia ha già avuto i primi strascichi, con l’ala draghiana dei due partiti che non ha gradito. Se nel Carroccio i malumori paiono controllati, tra gli azzurri si registra un addio di peso, quello di Mariastella Gelmini, ministro degli Affari regionali, che sembra il preludio di ulteriori fuoriuscite. Il Pd, dal canto suo, ha espresso tutta la sua amarezza. «Oggi è stata una giornata drammatica per l’Italia – spiega il Partito democratico -. Le scelte di Lega e Forza Italia da una parte e del M5S dall’altra sono gravi, sbagliate. Purtroppo, sarà tutto il Paese a pagare il conto di queste scelte». D’altronde, Letta ha sempre covato la paura del voto anticipato, conscio che i numeri non sono dalla sua parte, anche se a parole si è detto pronto ad andare alle urne. E il Pd laconicamente ha preso atto che non ci sono altre strade: «Da oggi ci prepariamo alla campagna elettorale».

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