Stadi e diritti televisivi: punti deboli del calcio italiano - V&A
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Primo pianoSport Ven 20 gennaio 2023

Stadi, diritti tv, ricavi commerciali: perché il calcio italiano è nella periferia d'Europa

Juventus, Inter e Milan non sono nella top 10 del rapporto di Deloitte sul valore economico del calcio. Quali sono le debolezze strutturali? Stadi, diritti tv, ricavi commerciali: perché il calcio italiano è nella periferia d'Europa
Alberto Mapelli
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Alberto Mapelli

Il calcio italiano sta diventando periferia economica in Europa

Il calcio italiano scivola sempre più in basso nella piramide economica, e di conseguenza sportiva, del calcio europeo. Il crollo dell’importanza economica dei club di Serie A viene certificato da Money League 2023, il rapporto curato annualmente da Deloitte che mette in fila i primi 30 club per fatturato in Europa. In classifica ci sono solo le tre big storiche del calcio italiano – Juventus, Inter e Milan – ma nessuna è nella top 10.

Anche la Juventus infatti è precipitata in base all’analisi di Deloitte, scivolando dal nono all’undicesimo posto, mentre Inter e Milano sono, rispettivamente, 14esima (stabile) e 16esima (+3 posizioni). Ma non solo. I club di seconda fascia della nobiltà calcistica italiana – Roma, Atalanta, Lazio e Napoli – che fino alla scorsa edizione occupavano dalla 24esima alla 30esima posizione sono spariti. Un segnale che la Serie A, dopo la mazzata Covid, stia definitivamente scivolando in secondo piano economicamente rispetto al resto dell’Europa.

Il Leeds, emblema di un modello che funziona

Appare ancora più evidente come il problema non sia solo legato all’Italia. La classifica è monopolizzata dai club di Premier League. Tra i 30 club più ricchi al mondo ben 16 sono inglesi: vale a dire che l’80% delle squadre della massima divisione inglese è   in classifica. Questo significa che anche solo partecipare alla Premier League garantisce ricavi incredibilmente più alti della maggior parte delle altre squadre europee.

L’esempio emblematico è il Leeds, squadra di proprietà dell’Italia Andrea Radrizzani, in Premier League da sole due stagioni complete. In due anni ha quasi quadruplicato il suo fatturato, passando dai 65 milioni di euro del 2020 (influenzati dal Covid) ai 223 milioni di euro del 2022, al 18esimo posto in Europa. Il tutto con risultati non eccezionali – un nono e un diciassettesimo posto – e, di conseguenza, senza gli ulteriori ricavi che vengono garantiti dalle coppe europee. 

Diritti tv, due pianeti differenti

Il vantaggio competitivo della Premier League deriva, in primis, da un lavoro partito con anni d’anticipo rispetto a tutti gli altri sui diritti televisivi e la valorizzazione del marchio all’estero. Annualmente i club di Premier League ricevono circa 3 miliardi di euro per la trasmissione delle partite, mentre la Serie A si ferma a poco meno di 940 milioni di euro.

Per il prossimo bando dei diritti tv, a cui parteciperà ancora Dazn nonostante i numerosi problemi degli ultimi due anni, si vocifera che la Serie A punti a scollinare il miliardo annuale per il mercato italiano. Ma è chiaro che per raggiungere le cifre del campionato inglese bisognerà lavorare soprattutto sul mercato estero. E per farlo bisognerà valorizzare il brand Serie A. Per ora i pianeti sono differenti perfino per i nostri top club, figurarsi per quelli meno prestigiosi.

Juventus, Inter e Milan hanno incassato nel 2022 per i diritti tv, rispettivamente, 175, 177 e 146 milioni di euro. Cifre nettamente inferiori alla media dei 20 top club – 203 milioni – e spaventosamente vicina a una squadra della medio-bassa Premier League come il Leeds (137 milioni di euro).

La differenza tra Juventus, Milan e Inter nei ricavi commerciali

Operare sullo status e la riconoscibilità del brand di ogni squadra all’estero va a incidere anche sui ricavi commerciali dei club. La Juventus si è gettata in anticipo e, grazie anche a un decennio di successi sportivi e alla risonanza negli ultimi anni di Cristiano Ronaldo, ha incassato 194 milioni di euro nel 2022

L’Inter, grazie alla proprietà cinese Suning, si era buttata sul mercato asiatico. Ma con il cambio di rotta del governo cinese sul calcio, il Covid e le progressive difficoltà della stessa proprietà, i ricavi commerciali si sono sostanzialmente dimezzati in tre anni. Dai 155 milioni del 2019 sono scesi agli 87 milioni dello scorso anno.

Il Milan, sotto la gestione Elliott, ha pensato a incrementare con calma il proprio status sia sportivo sia economico-finanziario. I numeri sono in crescita (87 milioni nel 2022) anche se non hanno visto un boom. Lo Scudetto e il passaggio di proprietà a Gerry Cardinale, fondatore di RedBird Capital negli Usa, possono dargli slancio sul mercato americano.

Sugli stadi serve un cambio di passo

L’altra enorme differenza tra l’Inghilterra e l’Italia sono gli incassi derivati dallo stadio e, più in generale, da quella che Deloitte classifica come “Matchday”. Il solco si chiama chiaramente stadio di proprietà e tutto quello che ci gravita intorno, dai servizi agli store del club. La Juventus è l’unica che ha operato in anticipo e, seppur su scala ridotta, la differenza si vede.

I bianconeri nel 2019, ultimo anno con gli stadi a pieno regime, ha sfruttato la proprietà dell’Allianz Stadium per incassare 66 milioni di euro. Cifre lontane da quelle top del Manchester United (costantemente intorniante ai 110-120 milioni annuali) ma superiori sia ad Inter (che ha toccato i 57 milioni nel 2020) e Milan (mai sopra i 37 milioni negli ultimi cinque anni). 

Non a caso i club milanesi, e non solo loro in Italia, stanno spingendo per ammodernare le strutture o costruirne di proprietà. Uno stimolo che anche a livello politico dovrebbe essere colto, snellendo i processi decisionali, se si desidera mettere le società calcistiche italiane nelle condizioni di competere a livello europeo nel medio-lungo periodo.

Serve una gestione finanziaria oculata, ma sportivamente più coraggiosa

Mentre si tenta di ampliare le risorse economiche a disposizione, i club italiani dovrebbero cercare di cambiare la filosofia con cui quelle poche che ci sono vengono gestite. Soprattutto dal punto di vista del costo del personale, su cui incide in larghissima parte quello degli stipendi milionari dei calciatori. La filosofia dovrebbe essere quella di rendere il business più sostenibile, provando a ottenere risultati sportivi con decisioni più coraggiose ma a prezzi contenuti. E con potenziali ampi ritorni sia economici sia sportivi.

In quest’ottica il modello virtuoso è quello del Milan. Da quando Elliott ha iniziato a gestire il club, la politica è stata quella di contenere i costi mentre si tentava di ampliare i ricavi. Per questo è stato imposto un tetto agli stipendi dei calciatori, si è deciso di svecchiare la rosa e di prendersi, sportivamente parlando, delle scommesse con giovani intriganti.

Un percorso che, al netto delle annate Covid che hanno sballato i conti del club, hanno portato il costo del personale in relazione ai ricavi dal 72% del 2018 al 64% del 2022. Proporzioni più in linea a quelle dei top club della classifica di Deloitte che, Paris Saint Germain a parte, difficilmente sfondano il tetto del 70%, nonostante il fatturato del Milan sia ancora in scala ridotta. La scelta ha pagato su entrambi i piani. Sportivamente con lo Scudetto dell’anno scorso. Finanziariamente perché ha reso il club appetibile, come testimonia la vendita di Elliott per 1,2 miliardi di euro e ha asset pagati poco rivendibili a cifre più elevate.

Questa strada non è ancora stata intrapresa con convinzione da Juventus e Inter. La prima naviga stabilmente dal 2019 sopra la soglia del 70% tra spese per il personale e ricavi. L’Inter, che aveva sfruttato lo spazio garantito dalle entrate degli sponsor cinesi per aumentare il monte ingaggi dei calciatori, ora si trova nei guai con un rapporto che nelle ultime due stagioni è stato superiore all’80%. Cifre insostenibili soprattutto nel calcio di oggi.

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