Pesce sintetico versus acquacoltura. I rischi per uomo e ambiente
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Il pesce sintetico non è green. L'acquacoltura invece si. Ecco perchè

Per Capoccioni, ricercatore CREA, il più importante ente italiano di ricerca agroalimentare, nulla prova che il pesce sintetico sia green Il pesce sintetico non è green. L'acquacoltura invece si. Ecco perchè Acquacoltura
Fiorina Capozzi
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Fiorina Capozzi

Giornalista di economia e finanza con esperienza internazionale e autrice di "Vincent Bolloré, il nuovo re dei media europei" (2015) e "Telecommedia a banda larga" (2020). Riconosciuta da Reporters without borders per il suo lavoro sui media europei.

Chi sostiene che il pesce sintetico è più ecocompatibile dell’acquacoltura mente

La questione economica ed ambientale, tanto strombazzata dall’ideologia green, è infatti tutta da verificare, mentre è certo che l’acquacoltura che rappresenta uno degli allevamenti animali più sostenibili esistenti. A fare il punto sulla produzione di pesce è Fabrizio Capoccioni, biologo e ricercatore presso il Centro Zootecnica e Acquacoltura del CREA il più importante ente italiano di ricerca sull’agroalimentare. Ma soprattutto un esperto di analisi di impatto ambientale della produzione animale, da anni impegnato nel miglioramento delle tecniche di allevamento del pesce in mare. Un settore, quello dell’itticoltura, che in Italia nel 2021 ha sfiorato 300 milioni di euro di giro d’affari, producendo più di 60mila tonnellate di pesci di venti specie diverse, distribuiti in più di seicento siti produttivi. 

Il biologo Fabrizio Capoccioni

“Una valutazione di impatto ambientale sul pesce sintetico sarebbe ad oggi impossibile” chiarisce l’esperto. “Una analisi di Life Cycle Assestment (LCA), di cui ci occupiamo nel nostro centro di ricerca, e cioè lo studio del ciclo di vita di qualsiasi prodotto, non è al momento fattibile. E la ragione sta nel fatto che, a quanto ci risulta, non esiste una filiera produttiva consolidata, ma solo dei tentativi sperimentali effettuati negli Stati Uniti” spiega.

Così “per ottenere una stima dell’impatto ambientale, in termini di CO2 prodotta, di un kg di pesce (ma anche di carne o di qualsiasi altro prodotto agroalimentare) è necessario avere a disposizione una serie di dati che solo una filiera produttiva consolidata potrebbe fornire. Tale analisi non avrebbe senso se condotta su una produzione sperimentale, perché si otterrebbe una stima assolutamente non veritierà” aggiunge. 

Nessun reale confronto è possibile

Detta in altri termini, ad oggi “è impossibile confrontare in termini di sostenibilità un kg di carne o di pesce provenienti da allevamenti con un analogo prodotto realizzato in laboratorio“. Almeno sulla base dei protocolli scientifici consolidati per la stima dell’impatto ambientale . Tutto il contrario di quanto sostegnono invece i grandi finanziatori degli alimenti in laboratorio che, pur non avendo dati alla mano, ritengono la produzione sintetica possa essere migliore di quella tradizionale. E questo al netto di motivazioni etico-ambientaliste.  “Non c’è prova della sostenibilità economica di carni e pesce sintetico perchè non c’è un ciclo consolidato per fare una valutazione conti alla mano. Per l’acquacoltura poi si parte da un livello molto buono di sostenibilità delle produzioni, per cui un eventuale gap da colmare non sarebbe affatto cosa semplice” sottolinea.

Tutti parlano di sostenibilità. Ma che cosa c’è dietro?

“Parte del mio lavoro è capire se una attività antropica, come lacquacoltura, è sostenibile attraverso la quantificazione dei diversi impatti prodotti” prosegue. “Se analizziamo l’acquacoltura nel panorama delle produzioni zootecniche, l’allevamento di pesce in mare è un’attività fra le più sostenibili per due aspetti principali. Il primo è lo spazio. Spigole e orate, che sono le specie ittiche marine più allevate in Italia, possono crescere in una gabbia galleggiante di una dimensione tutto sommato contenuta. Soprattutto se paragonata alle superfici necessarie per l’allevamento di altre specie terricole (vacche, suini, avicoli). E questo perché allevando i pesci in mare, il loro ambiente naturale, è possibile sfruttare la profondità di questo ambiente” sottolinea Capoccioni.

Per avere un’idea, le gabbie di allevamento sono immerse nell’acqua e hanno forma cilindrica: mediamente  25 metri di diametro e 12-15 di profondità. Dentro queste gabbie c’è un volume tale per cui è possibile allevare una quantità di pesce notevole, in relativamente poco spazio. “E questo è il primo punto a favore della sostenibilità dell’acquacoltura che consente di produrre proteine e acidi grassi dall’alto valore nutritivo come gli Omega 3 esistenti sono negli animali acquatici in un contesto poco sfruttato da altre tipologie di produzioni animali” riprende l’esperto.

Il secondo punto è invece l’efficienza

“In generale, per calcolare l’efficienza di una specie allevata si misura la quantità di cibo necessaria per ottenerre 1 kg di prodotto alimentare” chiarisce. “In questo i pesci hanno un’ottimo rendimento. Ad oggi, grazie ad una continua innovazione delle tecniche di allevamento basate su studi scientifici e sempre nel risetto delle esigenze nutritive delle diverse specie ittiche, si è arrivati ad ottonere un rapporto che si avvicina all’uno a uno. E cioè io do un kg di mangime e ottengo un kg di pesce” evidenzia l’esperto.

“Tale risultato straordinario è stato ottenuto nei salmoni, ma anche per trote, orate e spigole il rapporto è decisamente elevato (puo oscillare tra l’1,5 e 1,8). Stiamo parlando di ordini di grandezza diversi rispetto ad altre tipologie di allevamento a terra come quello di bovini, maiali o polli. Quindi fra le varie tipologie di allevamento, il pesce è probabilmente il caso in cui si ottiene una efficienza maggiore. Per non parlare poi dei molluschi come cozze, vongole e ostriche dove non c’è neanche bisogno del mangime visto che filtrano l’acqua” sottolinea.

Le regole italiane nell’allevamento in mare sono all’avanguardia

Premesso ce c’è sempre dove poter migliorare, Capoccioni spiega che oggi la tendenza dell’acquacoltra è andare sempre più nella direzione del benessere del pesce per ottenere una qualità migliore. Come? “Scegliendo ad esempio zone di allevamento adatte come quelle con elevate correnti. Nuotando costantemente il pesce cresce in condizioni ideali ma la sua carne sarà sicuramente più soda. In questo l’Italia è fra i Paesi più attenti sia all’impatto ambientale degli allevament che all benessere degli animali allevati, come si può notare dal costo del pesce prodotto in Italia rispetto a quello importato da paesi come Grecia o Turchia” chiarisce. Un prodotto importato può costare 6 o 7 euro al kg, mentre lo stesso prodotto, allevato in Italia a pochi km dal punto di vendita può costare tra i 15 e i 20 euro.

“Ora è vero che il prezzo ha diverse componenti, ma è evidente che produrre il pesce in Italia costa maggiormente che all’estero perchè l’allevatore italiano spende e investe mediamente di più rispetto ai rivali stranieri anche per effetto di leggi sanitarie e ambientali più restrittive anche rispetto a quelle europee” spiega. Un esempio? Una cosa è installare e gestire un allevamento lontano dalla costa, un’altra invece è collocare un impianto in una baia chiusa a poche decine di metri dalla terraferma e in punti a bassa profondità. La seconda opzione costa evidentemente meno, ma ha anche un prezzo ambientale maggiore.

“Non a caso molti allevamenti italiani non sono collocati a ridosso dalla costa ma in siti ad alto idrodinamismo ed elevate profondità, condizioni che se da una parte aumentano i costi produttivi, hanno ricadute sull’ambiente nettamente inferiori. Anche la qualità dei mangimi fa la differenza nella qualità nutrizionale finale del pesce prodotto. Esistono diversi produttori di mangimi, tipologie e fasce di prezzo, tuttavia per il consumatore non è semplicissimo capire la differenza.. alla fine sul bancone del pesce un’orata appare sempre uguale esternamente, ma in temrini di qualità del filetto no” aggiunge.

Sullo sfondo resta il tema della pesca a strascico cui Bruxelles ha dichiarato guerra

Rispetto al consumo di pesce mondiale, la pesca a strascico rappresenta una quota marginale. Tuttavia contribuisce al fabbisogno nazionale ed è un patrimonio di cultura e tradizione. Eliminarla, come più volte evidenziato da Federpesca significa condannare l’Italia ad una dipendenza dalle esportazioni. Salvo un incremento esponenziale dell’acquacoltura o l’arrivo sulle tavole del pesce sintetico. “La pesca a strascico ha certamente un forte impatto ambientale. Su questo non c’è dubbio, ma è chiaro che, prima di chiuderla completamente, si può arrivare a mitigarne l’impatto, lasciandola in zone limitate e facendone i fermi pesca come del resto viene già fatto” precisa l’esperto.

In generale, “la tendenza del mondo, non solo europea è che l’approvvigionamento da specie acquatiche è sempre più spostato sull’acquacoltura. Non a caso le più recenti stime della FAO riportano che le produzioni da acquacoltura al mondo hanno superato quelle provenienti dalla pesca. Fino a qualche anno fa c’era ancora un rapporto estremamente spostato verso il pesce pescato. E questo per due ragioni. Il primo è che moltissimi stock ittici sono sovrasfruttati. Il secondo sta nella certezza dell’approvvigionamento sulla base del consumo di singoli utenti e anche della ristorazione” conclude. In pratica se si vuole mangiare tutti i giorni, con la pesca a strascico bisogna attendere i ritmi della natura, mentre l’acquacoltura garantisce le quantità necessarie al mercato. Pur rispettando l’ambiente. 

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