Dalla tv al primo panino a Milano, la storia della catena Burgez
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ImpreseIn evidenza Gio 27 ottobre 2022

Dalla tv al primo panino a Milano, la storia della catena Burgez

Burgez, nata a Milano nel 2015, questa catena fondata da Simone Ciaruffoli insieme a Martina Valentini è arrivata a quota 20 store. Dalla tv al primo panino a Milano, la storia della catena Burgez
Marco Vassallo
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Marco Vassallo

La catena Burgez

La ricetta del suo panino proviene da un vecchio diario di un homeless newyorkese, dice lui. Simone Ciaruffoli che di vite ne ha avute 4 – come racconta nel suo libro «Il Vangelo secondo Burgez», Mondadori- lo aveva incontrato nella Grande Mela, dove era approdato nel 2012 «per cambiare vita». Quella precedente l’aveva vissuta nel mondo della tv. Era stato capo progetto per la casa Filmmaster Television, e prima ancora faceva lo sceneggiatore per Camera Café.

Ma evidentemente il destino, aveva in serbo altro per lui: dopo pochi anni sarebbe diventato infatti imprenditore nel mondo della ristorazione. Pardon, del «fast food di qualità» come lui stesso definisce il suo Burgez. Nata a Milano nel 2015, questa catena fondata insieme «alla mia amica» Martina Valentini è arrivata dopo la pandemia a quota 20 store (nessuno in franchising) e nel 2022 chiuderà con un fatturato di 15 milioni (+30% sul 2021). «Non sono cavolate, non sono cavolate», ripete Ciaruffo mentre racconta il suo percorso nel mondo di bun e burgers e di come è nato il brand.

Partiamo all’inizio, dalla storia del quaderno che le avrebbero regalato. Una storia che lei ha usato sapientemente anche come strumento di marketing. Verità o sceneggiatura?

«È tutto vero. Ero a Manhattan per vedere delle persone, poi dopo la serata ho incontrato un senza tetto. Era di origine tedesca e mi ha regalato un diario con delle ricette di famiglia. Lui è figlio di immigrati trasferitisi dopo la Seconda Guerra Mondiale negli Usa. Prima del viaggio in nave da Amburgo, l’attesa poteva essere di mesi e loro campavano cucinando queste ricette. Ce ne erano tante nel quaderno, ma mi colpì quella dell’hamburger».

Poi?

«Torno in Italia e imparo a cucinare (lo facevo anche quando lavoravo con Andrea Pezzi). In quel periodo andava di moda l’hamburger gourmet. Ma più che a questo format pensavo a un panino intermedio che si frapponesse tra il gourmet e il fast food classico. Così ho cominciato a studiare prima McDonald’s, poi Shake Shack, una catena statunitense che ha un modello leggermente diverso, con una qualità più alta. Martina, che ha esperienze nell’alta ristorazione con chef come Moreno Cedroni, è andata in missione a Londra dove ha lavorato proprio da Shake Shack per capire come si muovevano. Tempo di fare le nostre valutazioni e siamo partiti nel 2015 a Milano. All’inizio eravamo soli noi due. Non è stato facile dato che avevano lasciato i nostri precedenti lavori ed avevamo debiti. Poi nel 2017 abbiamo creato il Burgez Go, punti vendita solo per asporto e delivery, immaginando che il trend della consegna sarebbe esploso».

Ha parlato di fast food di qualità. Vuol dire che usate materia prima italiana?

«Voglio sfatare il mito: la carne italiana non esiste, come non esiste il gourmet nell’hamburger. Nel nostro Paese alleviamo più che altro mucche da latte, poi quattro mucchette che ci danno Chianina, Marchigiana, Fassona ecc. Non bastano per la domanda di carne trita. Noi ci riforniamo da Inalca, lo stesso fornitore di Mc Donald’s ma, e lo dico da fan di questa catena, il nostro panino ha più qualità e un prezzo maggiore (il menu più costoso può superare i 20 euro con gli ingredienti aggiunti, ndr). Questo pure perché il bun, lo stesso di Shake Schack, ha un costo elevato ed è di livello».

Ma quanti punti vendita si possono raggiungere senza alterare uno standard qualitativo alto?

«Secondo me fino a 60 negozi. Noi abbiamo intenzione di arrivare a quota 30 nei prossimi due anni. Apriremo al franchising e vorremmo in futuro espanderci anche all’estero. Ci avevamo già provato a Londra, ma poi non è andata. Fuori dal nostro Paese potremmo anche aprire in centri commerciali o multisala. Ma il nostro modello in Italia sarà sempre un’attività di quartiere che sfrutta locali non troppo ampi, concepiti per un pasto di 15-20 minuti. Non è vero che per noi conta solo il delivery».

Ma la storia che McDonald’s voleva rilevarvi è vera, invece?

«L’ho letta sui giornali qualche tempo fa ma le assicuro che non c’è nulla di vero. C’erano comunque investitori importanti interessati a noi, ma non se n’è fatto nulla».

Quali?

«Azimut e L-Catterton, ma ripeto non abbiamo raggiunto un accordo. Quindi abbiamo proseguito da soli».

Avete avuto anche voi disagi per la crisi energetica?

«È un problema generale. Però noi non siamo una realtà energivora. Chiaro, comunque, che le bollette alte ci sono arrivate».

Una delle armi vincenti per farvi strada è stata quella della comunicazione.

«Sì, abbiamo spinto tanto su questo aspetto. Ci siamo affidati alla nostra società di social management Upper Beast Side per costruire uno storytelling irriverente, e autoironico. Abbiamo scelto colori sgargianti nella campagna pubblicitaria e nei contenuti social. L’uso di pubblicità comparativa (che nessuno fa in Italia ma si può fare), ci ha fatto conoscere non poco. S».

Nel mondo del fast food ci sono gli stessi problemi della ristorazione a livello di personale?

«Per me sostenibilità significa innanzitutto creare un ambiente sereno per i dipendenti. Ho sempre amato il mondo umanistico, ho studiato da autodidatta psicologia e filosofia e ho cercato di trasferire questo approccio alla mia attività. Noi facciamo colloqui ogni giorno, non abbiamo avuto molti problemi e abbiamo circa 200 dipendenti. Certo i giovani non sono più quelli di venti anni fa: adesso hanno più pretese e accettano con riserva. Magari vogliono il weekend libero ma la mia non è una critica. Il problema semmai è lo smart working che ci porta via clienti e lavoro non i ragazzi».

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