Francesco Micheli, il leone della finanza: il segreto del successo
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ApprofondimentiPersonaggi Dom 04 giugno 2023

Micheli, il leone della finanza: "Il mio successo grazie alla musica. Quella volta tra Berlusconi e De Benedetti"

Francesco Micheli sorride e nello sguardo ha ancora quel lampo vivido, che l'ha reso per tanti anni uno dei padroni della finanza italiana. Micheli, il leone della finanza: "Il mio successo grazie alla musica. Quella volta tra Berlusconi e De Benedetti"
Emanuele Bonora
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Emanuele Bonora

Giornalista de La Verità, esperto di nuovi media. Responsabile dell'edizione online del quotidiano e delle strategie digitali.

Micheli come sta?

“Un tempo quando mi facevano questa domanda rispondevo sempre: “Benissimo”. Adesso dico: “Credo bene”. Ma solo per scaramanzia, tenuto conto che lo stato di buona salute non promette niente di buono”.

Francesco Micheli, 86 anni, sorride e nello sguardo ha ancora quel lampo vivido, che l’ha reso per tanti anni uno dei padroni della finanza italiana. Il leone di Piazza Affari, protagonista della scalata alla Bi Invest di Carlo Bonomi, nel 1985, e alla Fondiaria. Che ha messo il turbo alle connessioni internet nelle case con e.Biscom-Fastweb nel 2000. Che ha fondato la casa d’aste Finarte e che nel 2003 Genextra con Umberto Veronesi per investire nelle terapie innovative. Ma che ha sempre coltivato le sue passioni per la musica (è nel cda del teatro La Scala e ha ideato la manifestazione culturale MiTo). E per la politica. Un leone, si diceva, ancora in grado di ruggire.

Non si gode la pensione?

“Certo, ma continuo a fare tutto quello che ho sempre fatto. Però la responsabilità gestionale delle aziende oggi ce l’hanno i miei figli, di cui ho il massimo della fiducia”.

E lei si dedica alla cultura e alla musica, le sue passioni da sempre.

“Sono sempre stato impegnato nella cultura. Sono nato in una famiglia in cui non si sapeva la differenza tra titoli azionari e obbligazionari, ma nella quale si amava l’arte in tutte le sue forme. Mio padre era musicista, insegnava al Conservatorio di Milano. Mia madre era la sua allieva. Era una donna estremamente concreta e mi ha insegnato una delle cose che mi sono servite di più: l’importanza nella vita del network, della rete di persone di qualità. Da bambino mi iscrisse in quella che allora era la scuola più prestigiosa di Milano, il San Carlo, dove conobbi tanti ragazzi figli dei potenti. Non scelsi la carriera musicale, perché mia madre diceva che di musicista in famiglia ne bastava già uno. Ma se mi è andata spesso bene nelle varie iniziative che ho intrapreso lo devo, mi creda, proprio alla musica”.

E questo l’ha insegnato anche ai suoi figli?

“Ma senza mai spingerli. Infatti, nessuno ha studiato musica. Qualsiasi cosa all’inizio è una fatica terribile. Il bello viene quando si riesce a farla, come quando s’impara ad andare in bicicletta. Sbaglia chi spinge i figli a fargli fare lo stesso mestiere dei genitori, specie se hanno un’aziendina. Magari non è quella la loro strada. Poi i giovani di oggi sono estremamente penalizzati. Non c’è più ascensore sociale, le porte sono strette, i vecchi non mollano e si sta troppo concentrati su questi apparecchi: i cellulari”.

Lei ha provato tantissimi lavori prima di trovare la sua strada. 

“Darsi da fare era un imperativo categorico. Ho fatto tutti i mestieri possibili, pur avendo da mangiare in casa. Ai tempi del liceo facevo lo scrutatore del Totip, la comparsa alla Scala, vendevo lubrificanti ed elettrodomestici. Allora c’era una fabbrica che si chiamava Blanka. Nel frattempo, chissà che è diventata”.

Poi gli inizi come agente di cambio a Piazza Affari.

“Andavo a scuola con il figlio di Aldo Ravelli, che allora era un personaggio mitico della finanza. Uno che ha corrotto un kapò quando l’hanno messo a Mauthausen, parlando in dialetto ospiatese, un comune della provincia di Milano. Aveva fatto capire a questo kapò che lui era ricco e che se gli avesse dato una mano a sopravvivere lo avrebbe ricompensato. Quando ho cominciato a lavorare da Ravelli, appena finito il liceo, l’ho anche conosciuto. Si chiamava Frick e veniva a prendere la paghetta, perché Aldone, come lo chiamavamo tutti, non glieli aveva dati tutti insieme i soldi”.

Erano gli anni Sessanta, la Borsa era parecchio diversa da quella di oggi.

“Ho lavorato alla cosiddetta Borsa gridata, come quella che si vede in un film di Michelangelo Antonioni. Era un mondo di cui non capivo assolutamente niente, perché se mi si pungeva un braccio non veniva fuori il sangue, ma crome e biscrome, le note musicali per intenderci. I primi giorni furono impressionanti. Palazzo Mezzanotte. Un migliaio di persone che urlavano come dei pazzi. Tutti che fumavano. Il cartellone con le quotazioni certe volte quasi non si vedeva per il fumo. Non so come ho raggiunto questa età dopo aver respirato per 9 anni quell’aria. Lì ho capito i meccanismi della finanza”.

Ravelli veniva anche chiamato il Re Mida di Piazza Affari.

“Era temuto per la sua potenza finanziaria, ma soprattutto perché era un ribassista e non un rialzista. Allora in Borsa non c’erano computer. Era un far west, ma paradossalmente più serio. Perché oggi basta riempire carte e documenti e poi uno può fare quello che vuole. Vedi Madoff in America. Mentre allora, se sgarravi, non è che ti tagliavano la gola. Non ti consideravano. In quell’enorme stanzone, dove tutto era solo sulla fiducia, si faceva semplicemente finta di non sentire più quello che sgarrava. Quando ho iniziato a lavorare, lui mi ripeteva: “Mi dovresti pagare tu perché io ti insegno”. Poi dopo tre mesi mi ha detto: “Sei bravo”. E mi ha dato un rotolo di banconote. Da lui ho imparato come fare il ribassista, che è un modo più difficile di lavorare sull’azionario, ma che arricchisce molto di più: al rialzo tutti guadagnano, ma al ribasso, solo tu. È ovvio che poi eseguire gli ordini per conto di terzi, come agente di cambio, non mi interessasse più”.

Il grande salto nel 1985 con la scalata a Bi Invest della storica famiglia milanese Bonomi.

“Fu un’operazione epocale, perché era la prima volta che avveniva una scalata in Italia. Chi aveva le aziende quotate in Borsa, fino ad allora cercava di non far scendere troppo il prezzo delle azioni per la paura di essere scalati. E di non farlo salire troppo se no altrimenti venivano vendute allo scoperto. Tutti sapevano che questa operazione sarebbe stata fatta, ma nessuno aveva il coraggio di farla, perché Bi Invest faceva parte del salotto buono di Mediobanca”.

Con Enrico Cuccia ebbe un rapporto conflittuale.

“Con Cuccia all’inizio abbiamo lavorato spalla a spalla. Ma lui era il massimo protagonista del conflitto d’interessi. Lavorava contemporaneamente per i due padroni dell’Italia: Gianni Agnelli, che stava con Giulio Andreotti, e Eugenio Cefis, che stava con Amintore Fanfani. Avevamo delle impostazioni di pensiero diverse, ma io lo ammiravo moltissimo, perché, seppur diabolico, era colto ed estremamente intelligente”.

E lei stava con Cefis e la Montedison.

“Con Cefis abbiamo fatto le operazioni più spericolate. Avevo come collaboratore Sandro Grilli, che era un cambista bravissimo. Abbiamo fatto delle operazioni incredibili sull’argento, sul rame e poi in Borsa. E devo dire, con una fiducia estrema di Giorgio Corsi, che era l’amministratore finanziario. Aveva una fiducia totale in noi, ma mi diceva: “Poi i capelli bianchi vengono a me per quello che fate”. Pensi, una volta abbiamo fatto un’operazione straordinaria sul marco tedesco. Le banconote, se ricorda, avevano un colore marroncino, come il cioccolato dolce. Allora feci dipingere i nostri uffici di quello stesso colore. Si giocava anche su queste cose, allora. C’era un grande spirito di gruppo”.

Il colpo grosso è però quello con e.Biscom, oggi nota come Fastweb.

“È stata l’operazione più vistosa e ha creato delle utilità interessanti, lo ammetto. Ma vede, c’è un proverbio che dice: quando il cul con la ragion contrasta, il cul la vince e la ragion non basta. Questo vuol dire che c’è sempre una componente di fortuna negli affari. Quando con Silvio Scaglia, che all’epoca era un boy scout, abbiamo quotato in Borsa e.Biscom abbiamo avuto una fortuna pazzesca. Io mi aspettavo di fare un’operazione da 500 milioni. Abbiamo fatto 3 miliardi e fischia. Sull’onda di questo, Scaglia si è fatto troppo prendere dal Dio denaro. Tant’è che ha voluto accelerare lo sviluppo. Essendo un po’ più vecchiotto, gli avevo detto di stare calmo. Invece, ha comprato la rete telefonica di Amburgo, contro il mio parere. Voleva fare uguale a Colonia e se l’avesse fatto saremmo falliti subito. Allora ho capito che non mi interessava più quel business e sono uscito nel 2003. Lui alla fine si è salvato vendendo Fastweb a Swisscom”.

Come eravate riusciti a farvi dare le famose condotte dal Comune di Milano per passare i cavi della fibra ottica?

“Ne ho parlato con Gabriele Albertini, l’allora sindaco, anche recentemente. Il progetto prevedeva di riuscire a portare, su un unico cavo dati, computer, telefono e televisione. Questa cosa in laboratorio funzionava, ma nessuno sapeva se avrebbe funzionato nelle case. Per portare i cavi dovevamo farli passare sotto terra come i topi. Io dissi ad Albertini: “Per fare questo progetto ho bisogno delle condotte di Metroweb”. E trovammo l’accordo. Malgrado le critiche, la partecipazione per il Comune di Milano è stata un affare. Avevano rivenduto le quote a una decina di volte il loro valore iniziale”.

Aiutò anche Telecom quando era in difficoltà.

“Telecom doveva fare una gigantesca operazione di rifinanziamento in America. Andammo a New York Scaglia e io, con Roberto Colaninno, a fare il giro delle banche per avere i soldi. All’epoca al governo c’era Massimo D’Alema e pensavo di dover spiegare agli americani che da noi, anche se c’era un governo di sinistra, non si mangiavano i bambini. Non ce ne fu bisogno, ma mi colpì la spietatezza di quei banchieri”.

Quali erano i suoi amici in politica?

“Molti non ci sono più. Certamente Gianni De Michelis, genio e esageratezza e la vivacità sempreverde di Cirino Pomicino. Mio suocero era Lelio Basso, il socialista che dialogava alla pari con Andreotti. Lelio sapeva che era un’utopia il suo essere di sinistra in quel modo, ma era rimasto sempre coerente. Aveva una cultura eccezionale, da lui ho imparato moltissime cose. Però, io della politica non ho mai guardato all’appartenenza. Sono sempre stato anti ideologico e ho sempre avuto rapporti positivi sia nel mondo che allora mi era più congeniale sia nel campo di Agramante, cioè con quelli che teoricamente sarebbero i nemici”.

E spesso il suo nome è stato accostato a quello di tante operazioni finanziarie benedette dalla politica.

“Le racconto questa. Quando si cercavano degli investitori per risollevare Alitalia, i famosi Capitani coraggiosi, mi ero sentito diverse volte anche con Silvio Berlusconi. E avevo dato una mia disponibilità informale di grande rilievo a partecipare. Quando poi mi diedero il piano, il business model, ho detto: questa cosa non sta in piedi. Allora andai dall’amico Corrado Passera, che con Banca Intesa era capofila della cordata, e gli dissi: “Mi spiace, non mi sento più di partecipare”. E lui mi rispose: “Francesco, ormai lo sanno tutti che sei interessato, mi indebolisci l’operazione se esci”. All’istante mi venne in mente che un mio omonimo, Francesco Micheli, era un importante dirigente della Banca. Allora faceva il capo del personale. E gli dissi: “Dì che era lui””.

Lei ha avuto buoni rapporti sia con Berlusconi sia con Carlo De Benedetti, due poli opposti.

“Ho conosciuto Berlusconi quando ero in Montedison con Cefis. Era venuto per avere un certo supporto per una carica in Piemonte. Si dimenticarono di lui per tre ore in un salone e mandarono me a riceverlo. Mi morsicò la carotide per la rabbia, ma da allora siamo sempre stati in ottima amicizia e l’ho sempre ammirato per la sua imprenditorialità. Durante la guerra di Segrate avevo avuto l’incarico di cercare di appianare le divergenze tra De Benedetti e Berlusconi. Non ci fu modo e dovette intervenire Andreotti con Giuseppe Ciarrapico”.

A De Benedetti ha rinfacciato che oggi sarebbe potuto essere il proprietario di Intesa Sanpaolo, se l’avesse ascoltata ai tempi del Banco Ambrosiano.

“Proposi a De Benedetti di fare l’operazione con il Banco Ambrosiano, da cui poi è nata, tra drammatici passaggi, quella che oggi è Intesa Sanpaolo. Ma preferì tagliare con Roberto Calvi, che guidava l’Ambrosiano, anche se ormai si capiva che era finito, e vendere subito le sue quote della banca”.

Alla fine non si è mai fatto tentare dalla voglia di entrare in politica.

“Mi hanno fatto tante proposte, ma ho sempre avuto i piedi per terra. La politica è un’arte ben precisa che rispetto, che mi interessa, che mi piace, ma è molto più bella vederla dal di fuori”.

Qual è stato il suo vero segreto negli affari?

“Guido Rossi mi diceva: “Tu hai una qualità fondamentale. Sei attento e curioso”. Faccio mia questa frase. Ho sempre fatto tutte le operazioni con un compagno di viaggio. Mi sono interessato a settori diversissimi, dalla finanza all’arte, ma sempre cercando un socio con il know how specifico del settore. Mi sono preso grossi rischi, è vero, anche se il più delle volte erano calcolati. Ma ogni volta che ho sentito odore di mugugno nelle società, me ne sono andato via. Con il mugugno si vive male e non si riesce a fare niente. Così è andata anche con Fastweb, dove sono uscito al terzo anno, nel 2003, e poi con Umberto Veronesi ho fondato Genextra. Veronesi era un uomo delizioso e geniale”.

E adesso ha passato il testimone ai figli.

“Diciamo che oggi ho il vantaggio, che tutte le rogne se le prende mio figlio più grande, Carlo, ingegnere elettronico. Apparteniamo a scuole di pensiero a volte diverse, quando ci sono la fiducia e la stima reciproche le cose funzionano sempre. L’altro mio figlio, Andrea, ha ereditato, invece, da me la parte artistica e più creativa. Laurea in Scienze Naturali e poi un master in Bocconi, per dimostrare che non era meno bravo del fratello, ma che a lui piaceva quella roba lì. È un grande fotografo d’arte. E per poter avere un argomento di dialogo particolare e personale con i miei figli mi sono anch’io appassionato, con gli anni, ai loro interessi”.

Com’è cambiato il mondo della finanza, secondo lei?

“Parto dell’idea, e non vorrei essere passatista, che era migliore quando c’era il far west, perché c’erano poche regole, che si rispettavano. Oggi invece c’è un eccesso di regole. Troppa forma e poca sostanza, direi. E questo ci costa in termini di produttività”.

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