La rivoluzione verde mette a rischio 1,5 milioni di posti solo in Italia
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ApprofondimentiCronaca Ven 04 novembre 2022

La svolta green mette a rischio 1,5 milioni di posti solo in Italia

La rivoluzione verde mette a rischio 1,5 milioni di posti Confcooperative, con la transizione verde grave la situazione per 1,6 milioni di Pmi La svolta green mette a rischio 1,5 milioni di posti solo in Italia GRETA THUNBERG
Carlo Cambi
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Carlo Cambi

I conti della rivoluzione verde

Da essere verdi a essere al verde il passo è brevissimo e preoccupante. L’allarme sulla rivoluzione verde lo ha lanciato Confcooperative – la più estesa associazione d’imprese sociali: 17 mila per oltre 529 mila occupati e 81 miliardi di fatturato – che da due giorni ragiona sulla sostenibilità, sugli orizzonti del Green deal europeo e sull’impatto che la svolta verde ha sul destino delle aziende. Per avere un quadro esatto della situazione Confcooperative -ha imprese dall’assistenza allo sport, dall’agricoltura alla manifattura -ha chiesto al Censis di valutare gli impatti della «transizione» su organizzazione del lavoro, mercato e conti aziendali.

Lo stato dell’arte

Ne emerge un quadro preoccupante. Senza troppi giri di parole Maurizio Gardini che è il presidente di Confcooperative afferma: «La sostenibilità per le imprese non è più una scelta, ma una strada obbligata. Senza una reale transizione ecologica, accompagnata dalla semplificazione burocratica, da tempi sostenibili e dalle giuste misure fiscali, sono a rischio nel nostro paese 1,6 milioni di imprese che danno lavoro a 5,6 milioni di occupati».

E non si tratta solo di cooperative, ma è tutto il sistema economico italiano che finisce sotto stress a causa degli obblighi della rivoluzione verde. Peraltro nei giorni scorsi sempre dal mondo della cooperazione, ma stavolta agricola era arrivato un altro allarme. Carlo Piccinini presidente di Alleanza Cooperative agroalimentari italiane, in accordo con quelle europee, aveva affermato: «Le scelte politiche europee in tema di agricoltura e alimentazione non sono più attuali e realizzabili. A ben vedere, non lo sono mai state. L’agroalimentare è un asset strategico dell’economia europea e deve rimanere tale. L’implementazione degli obiettivi fissati dalla strategia Farm to fork, di cui non è mai stata presentata alcuna analisi di impatto da parte della Commissione, porterà inevitabilmente ad una riduzione dei volumi produttivi, ad un aumento dei costi al consumo dei beni alimentari e all’ingresso nel mercato comunitario di prodotti provenienti da paesi extra Ue, con pesanti effetti sul saldo della bilancia commerciale Ue».

I rischi del green deal

Nonostante questo Bruxelles sembra tirare dritto. E tuttavia ieri lo studio di Censis-Confcooperative ha definito i contorni di un disastro economico annunciato quello della rivoluzione verde. Le imprese che stanno dentro i parametri del Green deal sono pochissime: 16.354 imprese, che danno lavoro a 267.000 occupati. A rischio moderato e cioè che rischiano di non riuscire a coprire i costi della transizione ci sono 600.000 imprese che danno lavoro a 3,7 milioni di lavoratori. Ma tra queste imprese ci sono soprattutto le piccole e medie (oltre 1,5 milioni di occupati) che non hanno sufficienti risorse per adeguare da sole i sistemi produttivi.

Sono industrie del sistema moda, del sistema casa, della meccanica. Oltre l’11% delle imprese italiane secondo il Censis deve sostenere investimenti molto onerosi per adeguarsi. C’è poi l’esercito di quelli che non ce la fanno: oltre 932.000 imprese per 2 milioni di lavoratori (sono il 17,6% del totale delle imprese) rischiano pesanti perdite finanziarie se devono sostenere gli investimenti per produrre a zero emissioni. Per loro l’alternativa in assenza di aiuti è solo chiudere. Le imprese ad alto rischio sono le estrattive, quelle che lavorano e distribuiscono combustibili fossili, tutte quelle impegnate nella produzione di energia elettrica da fonti non rinnovabili e, in genere, in attività «energivore» come la siderurgia, il vetro, la carta, la ceramica, ma anche parte delle filiera agricola come l’allevamento e la trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli.

I dubbi di Cerved

Oltre a questa indagine ce n’è un’altra che è stata realizzata dal Cerved (sarebbe il registro delle imprese delle Camere di Commercio) che conferma l’esistenza di un gravissimo rischio «verde» per la manifattura italiana soprattutto per le piccole e medie aziende. Il Cerved ha preso in esame 683 mila società di capitale; l’8,4% di queste (57 mila imprese per circa 1,3 milioni di occupati) per tentare di agganciare la transizione verde è esposto per debiti finanziari per circa 285 miliardi di euro (il 31% sul totale dei debiti finanziari delle imprese che è pari a 924 miliardi). Di fronte a questo quadro Maurizio Gardini insiste sulla necessità che anche partendo dal Pnrr ci sia una consistente piano di sostegno alla transizione verde delle aziende, con una sburocratizzazione forte ad esempio per l’istallazione di fonti rinnovabili di energia e anche una detassazione di tutti gli investimenti verdi.

La transizione è comunque un percorso che pur tra mille difficoltà ha intrapreso il 79% delle imprese associate a Confcooperative che nel 2021 ha investito più di 1,2 miliardi per finanziare progetti o riconversioni green. I maggiori investimenti sono concentrati nel risparmio energetico e nella riduzione dei consumi che hanno interessato il 40,3% delle cooperative, in aumento di quasi il 10% rispetto al 2020 (30,9%). Il settore più coinvolto nel processo di transizione è quello delle costruzioni con il 60% di imprese che hanno fatto almeno un investimento, nell’agroalimentare la quota scende al 27 % mentre per il sociale e nel settore dei servizi si ha una percentuale che oscilla dal 28 al 33% delle cooperative. Un impegno di altro tipo è quello della cooperazione di consumo, 8 cooperative su 10 sono impegnate nella sensibilizzazione dei consumatori sullo sviluppo sostenibile.

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