Lavoro, lo strano caso delle tessere sindacali della triplice
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ApprofondimentiLavoro Lun 15 aprile 2024

Lavoro, lo strano caso delle tessere sindacali della triplice

L'allarme lanciato da Usb, Cub e Flp, preoccupate perché sempre più di frequente si parla della riforma della legge sulla rappresentanza Lavoro, lo strano caso delle tessere sindacali della triplice Cub e Usb in sciopero davanti al Campidoglio
Fiorina Capozzi
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Fiorina Capozzi

Giornalista di economia e finanza con esperienza internazionale e autrice di "Vincent Bolloré, il nuovo re dei media europei" (2015) e "Telecommedia a banda larga" (2020). Riconosciuta da Reporters without borders per il suo lavoro sui media europei.

Qualcosa non quadra nel numero di tessere degli iscritti ai sindacati. Soprattutto nel settore privato. Lo denunciano Usb, Cub e Flp, preoccupate perché sempre più di frequente si parla della riforma della legge sulla rappresentanza che rischia di far fuori dalle negoziazioni le organizzazioni più piccole, in barba ai principi democratici. L’obiettivo, neanche troppo nascosto, di Cgil, Cisl e Uil è infatti diventare gli unici interlocutori delle aziende e della pubblica amministrazione sottraendo spazio alle voci di dissenso. Ma è davvero possibile immaginare una simile riforma senza essere certi dei numeri? E per giunta facendo due pesi e due misure fra pubblico e privato?

La certificazione delle tessere sindacali non funziona infatti allo stesso modo per tutto il mondo del lavoro. Con tutte le conseguenze del caso. Nel settore pubblico, l’intero meccanismo è rodato da anni e gestito dal datore di lavoro, cioè lo Stato. Passa attraverso l’Aran, l’Agenzia di rappresentanza negoziale pubbliche amministrazioni, che ha censito come iscritti al sindacato circa 1,3 milioni di lavoratori su 3,3 milioni di dipendenti pubblici fra amministrazioni centrali e periferiche, sanità, istruzione e ricerca, Presidenza del Consiglio. Per i pensionati invece la comunicazione sia di adesione che di revoca al sindacato avviene attraverso comunicazione all’Inps.

Nel privato invece regna il caos più totale

La consistenza dei tesserati è infatti affidata all’autocertificazione dei sindacati senza che ci sia alcun tipo di controllo, ma solo una comunicazione formale del sindacato al Ministero del lavoro. Con il paradosso che, in alcuni anni, i numeri delle tessere sindacali comunicate al dicastero hanno superato complessivamente quello dei lavoratori attivi, come ricorda il sindacato Flp (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche). La questione non è da poco visto che stiamo parlando di poco meno di 17 milioni di lavoratori. E cioè la stragrande maggioranza della forza lavoro del Paese.

Ma la trasparenza è a zero

Il sistema dell’autocertificazione alimenta infatti opacità nel comparto privato. Anche a dispetto della disponibilità di sistemi telematici che renderebbero facili le verifiche incrociate in stile Agenzia delle Entrate. “Basterebbe equiparare il meccanismo pubblico a quello privato. Per essere certi dei dati deve essere infatti il datore di lavoro a comunicare il numero di tessere. E questo sia nel pubblico che nel privato” spiega Marco Carlomagno, numero uno del sindacato Flp. La soluzione è quindi a portata di mano.

Lavoratori versus organizzazioni

C’è poi un altro problema che costituisce un elemento discriminante fra il settore pubblico e quello privato. Nello Stato un lavoratore può iscriversi ad un sindacato anche se non firmatario del contratto nazionale della sua categoria. Nel settore privato invece non è possibile. Fatto che, ancora una volta, penalizza le organizzazioni più piccole.

“I lavoratori dovrebbero invece essere liberi di iscriversi ad un sindacato indipendentemente dal fatto che quella organizzazione abbia o meno sotto scritto il contratto adottato nell’impresa” aggiunge Carlomagno spiegando che così normalmente avviene nel settore pubblico. In questo modo ci sarebbe una rappresentazione più veritiera dell’appartenenza e quindi del numero di tessere dei sindacati.

Il rischio per la democrazia

In assenza di questa facoltà, nel privato sono messe alla porta le voci di dissenso.“In Italia oggi non c’è democrazia nei luoghi di lavoro. Figuriamoci se possa esserci trasparenza” precisa Antonio Amoroso, segretario nazionale della Cub. “Dal 1995 ad oggi in Italia, <i diritti sindacali> (assemblea retribuita, bacheca sindacale, permessi sindacali, trattenute sindacale agli iscritti, ecc.) sono stati riservati a coloro che firmano i contratti e/o le intese applicate dai datori di lavoro al personale in forza. E questo è accaduto a causa del mancato intervento del legislatore che, si è rifiutato di varare norme che estendessero il diritto di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro dopo il referendum del 95 in cui venne abrogato parzialmente l’art.19 dello Statuto dei Lavoratori,” evidenzia.

“In forza della norma abrogata però dal referendum, i sindacati che non condividevano gli accordi stipulati, non avevano diritto di esistere e di esercitare il loro intervento nei luoghi di lavoro. Così è stato fino al 2013 in cui è intervenuta la Corte Costituzionale ma il legislatore continua ad ignorare il buco normativo e la situazione non è cambiata sostanzialmente, favorendo i monopoli sindacali” conclude.

Inoltre, sempre sulla base delle loro autocertificazioni, Cgil, Cil e Uil restano i principali firmatari dei contratti: il 96,5% dei lavoratori del settore privato è coperto da un Ccnl siglato dalla triplice. E fanno parte anche del Cnel proprio perché sono le organizzazioni sindacali più rappresentative. Detta in altri termini, per quanto riguarda i contratti sottoscritti e depositati, la triplice la fa da padrona. Anche perché spesso e volentieri i sindacati minori sono esclusi dai tavoli di negoziazione dagli stessi datori di lavoro sulla base proprio della scarsa rappresentanza definita sulla base delle tessere in autodichiarazione.

Ma allora perché il legislatore interviene?

Non si tratta di una riforma da poco perché scardinerebbe l’attuale sistema di potere dei maggiori sindacati del Paese. Un meccanismo che incide persino sulla gestione del personale e sulle assunzioni, soprattutto nelle aziende a partecipazione statale. E non solo. La storia recente del braccio di ferro fra il Comitato di indirizzo e vigilanza (Civ) dell’Inps, dove sono presenti i sindacati più rappresentativi, e dell’ex numero uno Tito Boeri è emblematica in tal senso.

Nel 2016, quando era ai vertici dell’istituto, Boeri si scontrò duramente con il Civ sul tema della riorganizzazione dell’istituto. Il pomo della discordia? Secondo Boeri, il Civ avrebbe dovuto interloquire con la presidenza, ma non con la direzione generale. Secondo Boeri questa soluzione avrebbe evitato interferenze nelle nomine delle direzioni territoriali. E di conseguenza possibili ingerenze su trasferimenti e avanzamenti di carriera. Una sorta di piccola rivoluzione che, a distanza di otto anni, non è ancora andata realmente in porto.

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