Banche, basta buonuscite d’oro per tutti
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Cronaca Gio 02 giugno 2022

Banche, basta buonuscite d’oro per tutti, lo dice la Cassazione

Sono illegittime le maxi-liquidazioni ai manager bancari se l'istituto da loro guidato era in perdita. Lo ha stabilito con una sentenza. Banche, basta buonuscite d’oro per tutti, lo dice la Cassazione
Franco Bechis
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Franco Bechis

La sentenza della Cassazione sulle liquidazioni dei manager bancari

Sono illegittime le maxi-liquidazioni ai manager bancari se l’istituto da loro guidato era in perdita. Lo ha stabilito con una sentenza che farà giurisprudenza la seconda sezione civile della Corte suprema di Cassazione respingendo il ricorso dell’ex consigliere Mps Fredric Marie De Courtois, oggi direttore generale aggiunto del gruppo Axa, che aveva impugnato in più gradi di giudizio la sanzione da 90 mila euro che gli aveva comminato la Banca di Italia per avere approvato in cda la liquidazione extra da 4 milioni di euro all’allora direttore generale Antonio Vigni. Stiamo parlando dunque di una risoluzione consensuale del rapporto che fu ratificata dal consiglio guidato allora da Giuseppe Mussari nel lontano 12 gennaio 2012. Da anni quella sanzione che la Banca di Italia comminò a tutto il consiglio gira tribunali civili e amministrativi. E nel caso di De Courtois, che fino al 2021 è stato anche uno dei top manager del gruppo Generali, aveva già trovato sentenza a lui sfavorevole di fronte alla Corte di Appello di Roma.

Ora la Cassazione di fatto conferma quanto stabilito in secondo grado, obbligando il manager francese a pagare quei 90 mila euro, ma offre – visto il livello di giudizio – giurisprudenza anche per casi futuri o per altre cause simili ancora in corso. Prima cosa fissa un punto fermo: gli istituti di credito non sono liberi, anche se privati, di scegliere di liquidare i manager come meglio preferiscono sulla base di accordi finali fra le parti. Ma devono attenersi alle disposizioni generali sulle remunerazioni emanate dalla banca centrale che in base all’articolo 53, comma 1 e lettera d) del decreto legislativo 385 del 1993 ha diritto di fissare tutte le regole anche su «il governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazione».

Quelle regole esistevano e stabilivano che anche in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, come avvenuto con Vigni, i compensi liquidati dovevano essere collegati alla performance realizzata e ai rischi assunti dalla banca amministrata. Quindi era stata giustamente contestata dalla vigilanza della banca centrale la clausola dell’accordo consensuale «con cui Mps si era impegnata a tenere indenne il direttore uscente da azioni, anche di terzi, in relazione al suo operato», perché questa, secondo la Cassazione, «appariva irragionevole alla luce dei pessimi risultati ottenuti dal predetto direttore». I magistrati ricordano che Vigni aveva ricevuto tutto il legittimo trattamento che gli spettava contrattualmente e che la delibera stessa del cda Mps aggiungeva la somma lorda di 4 milioni di euro «a titolo di incentivo per agevolare la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro e quale integrazione del trattamento di fine rapporto, oltre alle competenze di fine rapporto, al tfr maturato e ad ogni altra spettanza prevista dalla legge e dal contratto nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende di credito».

La Cassazione insiste su un punto della sentenza da appello che fa proprio, e che spiega anche la ragione delle disposizioni emanate dalla Banca di Italia e violate in questo caso dal cda di Mps dell’epoca: è necessario ancorare le liquidazioni dei manager (super o meno che siano) alla performance realizzata e ai rischi assunti perché «deve escludersi che la banca per reperire le somme occorrenti a detto compenso possa adoperare le somme a qualunque titolo affidate dai risparmiatori, oppure il patrimonio di vigilanza della banca stessa». Se dunque un manager rende una gallina dalle uova d’oro la banca da lui amministrata, negli utili si può legittimamente trovare quota a premio per la sua successiva buonuscita. Ma se l’istituto è in perdita, nulla che non sia contrattualmente previsto per il ruolo è dovuto, perché non potendo attingere dagli utili qualsiasi compenso non accantonato in precedenza (come il tfr) dovrebbe essere sottratto ai depositi dei clienti della banca o al patrimonio di vigilanza.

Vigni era entrato in una banca che faceva 900 milioni di euro di utili, ma che al momento della sua uscita chiudeva un anno nero – il 2011- con una perdita di 4,69 miliardi di euro. Peraltro proprio le decisioni prese dall’allora direttore generale, seppure «riabilitate» sotto il profilo penale dalla recente sentenza che ha assolto lui e Mussari sul caso Antonveneta, avevano già comportato una pronuncia definitiva della Cassazione che lo condannava a risarcire alla banca il danno da lui procurato e quantificato in 50 milioni di euro.

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