La Cina entra in crisi strutturale: non è più una zona sicura
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ApprofondimentiMondo Sab 16 luglio 2022

La Cina entra in crisi strutturale: non è più una zona sicura per gli affari

Parecchi analisti economici commentano i guai economici della Cina come se fossero contingenti. In parte lo sono, per esempio quelli causati. La Cina entra in crisi strutturale: non è più una zona sicura per gli affari
Redazione Verità&Affari
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La crisi della Cina

Parecchi analisti economici commentano i guai economici della Cina come se fossero contingenti. In parte lo sono, per esempio quelli causati dalla politica di combattere Covid e varianti con il metodo dei lock down totali per inefficacia dei vaccini cinesi e orgoglio nazionale malriposto, che spinge il Partito comunista a non importare quelli che funzionano. Ma in realtà i guai più gravi sono strutturali, cioè riguardano il modello economico e l’esaurirsi del suo ciclo espansivo iniziato negli Anni ’80. Pertanto al rischio dell’aggressività del regime nazionalsocialista va aggiunto quello di sua implosione economica.

Il rischio implosione della Cina

Tale ipotesi fu segnalata da ricerche riservate già nel 2012, quando alcuni analisti osservarono il modo con cui Pechino, dal 2009, forzò l’aumento della domanda interna – letteralmente a fucili puntati in alcuni casi – e il dominio di risorse estere per contrastare il calo dell’export verso America ed Europa grippate dalla crisi finanziaria del 2007-08 seguita da una recessione pesante. Va annotato che tale forzatura fu anche motivata dalla geopolitica: la Cina volle mostrarsi sia in espansione, anche per ricevere più investimenti esteri, mentre gli occidentali non lo erano, sia ottenere vantaggi politici da una domanda crescente in Cina per prodotti sia americani sia europei. Infatti, molti governi furono enfatici nel concedere fino a poco tempo fa alla Cina nazionalsocialista privilegi, in particolare Francia e Germania, seguite da una conduzione dell’Italia miope, per altro simile a quella del governo Cameron nel Regno Unito, pensando che la Cina avesse un destino ineluttabile di nuova potenza primaria.

L’amministrazione Obama, nel 2013, decise un piano di limitazione dell’espansione cinese, ma non volle intaccare (come Trump dal 2017 e Biden ora) il ciclo commerciale binario pur i rapporti dell’intelligence del tempo segnalando che il deficit commerciale statunitense stava finanziando l’emergere di un impero ostile: prevaleva l’idea, soprattutto nella comunità industriale e finanziaria americana, che in tale squilibrio prevalessero i vantaggi. Ciò alimentò il mito infondato della Cina forte e quello, ancora prevalente negli scenari, che l’Asia cinesizzata (in realtà nessun vicino la vuole) sarebbe diventata il nuovo centro del mercato globale. Nel 2015 un numero crescente di analisti, tra cui chi scrive, collegò una crisi contingente dell’economia cinese a problemi strutturali: sovracapacità, debito insostenibile, opacità finanziaria. E come indizio di un rischio di implosione annotò la tendenza di Xi Jinping ad assumere poteri dittatoriali – poi assunti formalmente nel 2017 e da allora rinforzati rompendo la tradizione di collegialità del partito comunista creata da Deng Xiaoping dal 1978 – per dare più verticalità al controllo dell’economia e bilanciare con il nazionalismo aggressivo le delusioni sociali che stavano aumentando per il rallentamento della crescita cinese (dal 2015 i dati sempre truccati lo furono di più, quelli “depurati” pur non precisabili in dettaglio mostrano un declino).

Il problema strutturale della Cina

Qual è il problema strutturale? In parte è simile alla bolla immobiliare scoppiata in Giappone nel 1992, per capirsi in generale. In particolare, la bolla cinese è mega e destabilizzante: tante case finanziate a debito non riempite dal flusso migratorio città/campagna. Non c’è lavoro per tutti quelli che lo chiedono. Il problema è noto da quando (2014) è stato analizzato meglio il modello di penetrazione estera cinese: finanzia progetti per dare occupazione a lavoratori che non la trovano in casa. Sovracapacità: modellando la crescita cinese via curva logistica è osservabile che ha raggiunto la saturazione già nel 2012-15 e quindi non potrà reggere con nuova domanda un’offerta che è aumenta a dismisura e a debito.

Il debito pubblico potrebbe essere attorno al 300% del Pil, quello privato ora verso le stelle. Infatti Xi sta raffinando un nuovo modello denominato “oliva” che privilegia la classe media e minimizza le punte sia in basso sia in alto sulla scala della ricchezza. Ritorno dell’ideologia socialista? Certamente è un motivo, vista la guerra condotta da Xi ai tycoon con intenzione di dominare via denaro il partito. Ma è prevalentemente un motivo per mantenere l’ordine sociale, segnalato dall’enfasi sull’armonia, in una nuova fase dove la crescita sarà minore e la delusione sociale maggiore, per esempio il numero crescente di persone che rifiuta di pagare i mutui. Si aggiunga l’impatto prossimo della crisi demografica dovuta alla politica di un solo figlio (pur ora abbandonata e mai rispettata nelle campagne) e si vedrà nello scenario che il rischio di implosione strutturale dell’economia cinese sta aumentando.

La nuova questione cinese

Da un lato, un regime autoritario ha mezzi repressivi efficaci per mantenere l’ordine sociale. Dall’altro, il disagio economico massivo pone limiti a questo metodo. Ciò pone due rischi: quello (tipico) del nazionalismo aggressivo per sovrastare il disagio, eventualmente nemicizzando qualcuno, tecnica precorsa dall’uso dei lock down per giustificare una crisi di origine diversa, ma anche quello di un’implosione non contenibile internamente e difficilmente correggibile dall’esterno, via finanza d’emergenza, vista la scala della Cina. Tale situazione definisce una nuova “questione cinese”: non conviene che la Cina imploda né che si espanda militarmente. Ci vorranno nuove soluzioni, ma al momento gli attori economici devono considerare che la Cina non è zona sicura per gli affari.

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